sabato 25 ottobre 2014

Quattro chiacchiere al Webar: Il Nazareno si è fermato a Leopolda, si stava meglio quando si stava peggio.


“Si stava meglio quando si stava peggio”. Eh si, lo si percepisce, lo si legge tra le righe. È una mentalità rassicurante che il passato, uomini e cose e finanche virtù, sia stato migliore. Lo dicevano i miei nonni e sicuramente anche i loro, poi è toccato ai miei genitori, adesso tocca a me. Un rimando un po’ vago, senza analisi di luoghi, tempi, eventi, un semplice quanto efficace slogan: si stava meglio. E pare che a tornare in dietro, magari alla lira (ancora meglio ai sesterzi), magari alle pitture rupestri (senza migrazione tra i continenti  e ibridazione beninteso)  e perché no a lavare alla pubblica fontana (solo i panni puliti, non quelli sporchi intendiamoci) ci farà “stare meglio”.

Siamo in una fase storica di svolta, come tale incerta, un lungo momento di passaggio e cambiamento. Aspettiamo! Aspettiamo risposte e indicazioni, soluzioni: La Legge di Stabilità, il decreto Slocca-Italia,  si è guardato a Renzi come il Salvatore (non il nome proprio di persona che uno potrebbe pensare a Salvatore Giuliano), si è votato Pd e M5S (non per ridere, che uno pensava a Grillo e Te la do io l’America) e a darci soccorso arrivano anche i Peanuts spiegandoci l’economia felice (La psicoeconomia di Charlie Brown – strategie per una società più felice – di Matteo Motterlini). 
"Stazione Leopolda"- Foto aldoaldoz
Non sono più i tempi in cui Bluto esclamava: “Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare.”, siamo così fragili adesso, da psicoanalisi: l’ansia è il nostro vessillo. Tutto adesso, come se prima… Anche la guerra, quella dell’Isis, ci appare totale: l’Islam più estremista contro sé stesso e contro l’Occidente. E tutti ad aspettare il lunedì, pronti con le medaglie da appuntare al petto di qualcuno, tutti ad aspettare nuovi Generali (non le assicurazioni o forse si, perché di assicurazioni si tratta. Abbiamo bisogno di assicurazioni.)
Da qualche parte ho letto dei versi scritti circa 4000 anni fa, durante il Regno Medio dell’antico Egitto, una sorta di sfogo: «A chi parlerò oggi? L’uomo cortese è scomparso. Il violento è ricevuto da tutti. L’iniquità che infierisce sulla Terra non ha fine. Non ci sono uomini dabbene. Il mondo è in mano agli iniqui.». Sembra scritto oggi, in risposta all’Isis, al lavoro, all’economia, alla politica. Ci troviamo di fronte a vittorie che non abbiamo conquistato, si ha l’impressione di avere ereditato solo parole: giustizia, buon governo, verità, libertà. Dimentichi che ogni rigenerazione ha in sé la degenerazione. Per dirla con le metafore che amiamo tanto pensiamo alla farfalla, chissà se ha memoria di essere stata un verme.

"Studio d'insetti con ribes giallo", Jan van Kessel il Vecchio 1636-1679

Eppure il verme ci fa schifo, lo associamo con le cose morte. Ma a ben guardare ogni cambiamento è una partita a scacchi con la morte, anche nella Scandinavia del “Il settimo sigillo” imperversava la disperazione, Antonius tornava dalle crociate in Terra Santa e i saltimbanchi sembravano non accorgersi di nulla. Certo il film di Bergman è, riduttivamente parlando, un film sulla fede, ma anche riprendere in mano il proprio tempo è una questione di fede.
La nostra realtà è viva e mutevole, né migliore, né peggiore, è la nostra, come è stata per quelli che ci hanno preceduti, un fatto è: come siamo disposti ad affrontarla?
Scriveva John W. Gardner negli anni ‘60: «Talvolta dimentichiamo che ogni generazione deve combattere di nuovo le battaglie decisive, sui propri campi di battaglia e scoprire così le proprie verità.»
Anche Vittorio Alfieri nel 1790 scriveva qualcosa di interessante: «TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo

E tornando agli anni ’60, i nostri, e poi al decennio successivo gli anni ‘70 penso all’espressione anni di piombo, ovviamente (penserete) dovrei riferirmi all’eversione, al terrorismo, allo stragismo, ora di destra, ora di sinistra, alle mezze verità. Mi spiace deludervi, no! Io penso all’ Ubu roi di Jarry, alle marionette di carta ritagliate e ai Generali impagliati di Baj. Il piombo mi fa venire ancora in mente le medaglie, e noi che aspettiamo la cerimonia per appuntarle sul petto dell’eroico solutore (non il santo, o si?).
Le Général, Enrico Baj  ca.1985
Che volete mi sento patafisica, perché come diceva il dottor Faustroll: «(la patafisica è) … la scienza delle soluzioni immaginarie»
Vi lascio da leggere questa breve pagina perché a correggere il presente serve il futuro.

Gli uomini di guerra
Nella vertiginosa accelerazione dei tempi, che era stata così precisamente descritta dall'eccellente Guénon e che burrifica con sempre maggiore furia il mondo in cui abbiamo la fortuna di esistere, non è un po’ stupefacente vedere la tenacia di certe vecchie categoria?
La donna di casa, l’uomo di fatica, la donna di facili costumi, il chierichetto, i magistrati e l’uomo di guerra sono più o meno dell’età della carriola e, ciononostante, con l’antica monoruota, ostinatamente, persistono. L’ultima specie, cioè quella dell’uomo di guerra, è la più vivace. Ma a dispetto delle finalità sterminatrici per le quali è stata la società ad aver fatto le spese per seminarla, trapiantarla, innestarla e (per quanto possibile) coltivarla, almeno nella metà degli stati che hanno pretesa d’indipendenza, essa si è arrampicata sui troni, fiorisce e fruttifica sopra le poltrone d’apparato dove siedono i capi di governo. D’altronde, non si può dire che non abbia bei colori. Triste sarebbe l’occhio che non si lasciasse dilettare al cospetto dei trionfali pennacchi.
Se i pittori hanno sempre ritratto molto volentieri i militari, guardiamoci dal pensare che erano o fossero sensibili alla gloria cui hanno sovente aspirato quelle persone. No. I pittori non hanno mai considerato altra gloria fuorché la loro (individualmente) ma se, per ogni artista, l’uomo di guerra è un oggetto d’arte al massimo livello, è anche il modello o l’origine da cui nascerà comodamente l’opera d’arte. Anzi, l’uomo di guerra è un oggetto artigianale tanto quanto artistico. Imbalsamato (quando sarà di moda), imbottito di sano kapoc o di crine lavato con insetticida, avrà nei grandi magazzini il suo giusto posto sia nel reparto “decorazione” sia in quello della “doratura”, della “chincaglieria”, della “imbottitura”, della “passamaneria” o dei “bronzetti da ornamento”.
Non è affatto sorprendente quindi che Baj, uno dei geniali artigiani della nostra epoca, sia giunto con tale disinvoltura dalla tappezzeria e dall’ebanisteria alla preparazione decorativa degli uomini di guerra.
È in piano (o meglio in leggero rilievo) che l’artigiano italiano imbottisce i generali e gli ufficiali di massimo grado. Così preparati, hanno il vantaggio di essere meno ingombranti che allo stato originale; ci guadagnano anche quell’espressione magnificamente teatrale e superbamente oratoria  che hanno i piccoli quadrupedi che sono passati tra l’asfalto della strada e le gomme di un mezzo pesante o il cilindro di un rullo compressore. I bei colori, di cui ho già detto quanto rendano attraente l’uomo di guerra, escono indenni dall’operazione. In qualche maniera, sono addirittura ravvivati. Una curiosa aggiunta è quella dei pezzi d’orologeria che Baj usa spesso al posto degli occhi di vetro che gli impagliatori introducono nelle orbite rinsecchite delle pelli di tigre o di sciacallo. Il loro sguardo meccanico avrà il buon effetto di rammentare agli uomini che oggi il mondo è regolato sull’ora militare.
Adorniamo dunque i nostri focolari con uomini di guerra.
Queste illustrazioni domestiche saranno nei musei di domani.

André Pieyre de Mandiargues

Amy Jones, Nicholas Dubberley, Colin Craig, Susannah Frith, Andi Snelling and Antony Okill
 in 5pound's Ubu Roi (messinscena teatrale di Ubu Roi di Alfred Jarry al 
Owl and the Pussycat, Richmond.)

6 commenti :

  1. Chissà perché noi italiani dobbiamo sempre essere in attesa di un "uomo della provvidenza". Ma non solo Mussolini, o Berlusconi o adesso Renzi. Anche prima, anche più in là nella storia. Qualcuno che ci rimbocchi le coperte e ci addormenti. Chissà perché la democrazia, quella vera e partecipata, ci è estranea

    RispondiElimina
  2. Sempre bello leggere i tuoi pensieri mai banali. Io non credo che si stesse meglio "prima", o almeno mi sforzo razionalmente di non pensarlo, perché tanto gli uomini cambiano sempre troppo lentamente. Però c'è una cosa che senz'altro stava meglio "prima", e sta sempre peggio per causa nostra: il pianeta su cui viviamo.

    RispondiElimina
  3. Sai Silvia a volte è comodo dire: prima. O come ho cercato di scrivere: aspettare. Aspettiamo chi s'impegni, chi risolva, chi pulisca... E sicuramente, ti do ragione, si stava meglio prima, ma prima prima, prima della scoperta del fuoco e della ruota. Prima che iniziassimo a diventare "infestanti". Oggi sono caustica.

    RispondiElimina
  4. ... ma è sempre bello riceverti. Ciao Silvia

    RispondiElimina
  5. Ma com'è che qui spariscono spesso i commenti? Non che fosse un granché quello che avevo tirato fuori.....ma è un po' frustrante. Si può convincere blogspot ad essere più collaborativo?:)

    RispondiElimina
  6. Buonasera Ody, adesso mi adopero... mi dispiace non leggerti. Sarò anche patafisica, ma non riesco ad immaginare anche i tuoi commenti.

    RispondiElimina

Torna su