disegno di Energu |
«Il mondo»: lo pronunciò come fosse una parola nuova, mai sentita. Fissò la vecchia sulla sedia, immobile e si asciugò il sudore. Pensò a Ursula, alla bellissima spilla per il vestito scollato, a dire il vero si concentrò di più sul vestito scollato, strizzò gli occhi per il troppo calore che gli partiva dallo stomaco e il sudore che oramai gli colava dappertutto. Come avrebbe voluto averla di fronte, seduta su quella sedia, che per buona parte della giornata farebbe volentieri a pezzi, ma non ora; ora la guardava con occhi deliranti, la sedia, e per qualche istante così intenso da sentire un vuoto al petto, gli sembrò di toccare le cosce diUrsula, calde e lisce, talmente delicate da sentire una a una tutte le screpolature della sua mano. Ci mise poco a rendersi conto che fissava la vecchia tra le cosce, s’infuriò, avrebbe voluto perdere il controllo e scuoterla fino a renderla viva, ma doveva pensare al libro.
Lo ricoprì con attenzione, lo avvolse dentro un pezzo di camicia che aveva strappato e nascosto, si era inventato un incidente stupido, ma ci avevano creduto senza fare troppe storie, ogni settimana lavava quel brandello per tenere quelle pagine consumate al riparo da tutto. Accarezzò con cura il contorno quasi per prendere tempo e dopo averlo sistemato sotto il giubbotto si diresse in superficie, camminò per circa mezz’ora prima d’infilarsi in una feritoia.
Al ritorno rifece sempre lo stesso pensiero: «Anch’io devo avere un nome, Phil, meglio Who, anzi Leary oDavid o Horty. No, devo avere un nome mio, non quelli del libro, uno tutto mio da non dover dividere con nessuno».
Lo ripeteva senza decidersi mai, da qualche parte nel fondo sapeva di averne uno, si sedeva per ore cercando dentro la testa un indizio, qualcosa che lo riportasse indietro, a prima, prima di ora. Conosceva il significato delle parole, ricordava alcuni momenti, facce, pezzi di zone, ma quei posti raccontati non gli dicevano nulla,; anche il tè, un giorno fantasticò sul sapore muovendo su e giù la lingua, prese un sorso d’acqua e lo trattenne in bocca. Niente, non sentiva niente, il solito sapore acido, solo di notte sentiva e smaniava agitato, cercava di non pensare a Ursula, sul libro non c’erano dettagli e finiva sempre col trasformarla, tranne la pelle. Ah la pelle di Ursula, quella gli era familiare come se l’avesse già accarezzata da qualche parte.
«Eh sì, è sicuro mi hanno cancellato la memoria. Se solo riuscissi a svegliare la vecchia, maledetta. Magari è una sentinella. E se fosse un salto temporale, già, forse. Mhhh potrei aver perso i ricordi, qualcosa è andato storto. Sono un predestinato che viaggia attraverso lo spazio…».
Forse il libro glielo avevano lasciato apposta, pensava. Ma chi di loro, di chi poteva fidarsi, magari neanche del libro; eppure quelle pagine che leggeva e rileggeva da mesi, gli avevano fatto affiorare parecchie situazioni, si era reso conto di sapere molte più cose di quanto il suo cervello voleva fargli credere. E se il libro fosse della vecchia? I copianti non erano mai entrati nel tunnel, né lui si era mai allontanato prima della loro partenza. Ne era più che certo, e sapeva con convinzione che i primi giorni non c’era niente dietro la parete. Come dimenticarsi l’incubo di quel primo periodo: terrorizzato aveva frugato in ogni angolo o fessura per capire dove si trovasse e si era spinto per chilometri nelle gallerie fino alle vasche. Nessuno avrebbe potuto attraversarle, l’acqua luminescente si tingeva all’improvviso di rosso, i mamba-toràh, così aveva battezzato quelle orride creature, affioravano aggrovigliati a centinaia azzannandosi uno con l’altro, talmente tanti da non lasciare spiragli, un’apocalisse muta, solo lo sciacquio convulso, e sommesso per i troppi corpi, dell’acqua.
Come nel racconto attraversava «labirintici percorsi sotterranei che si perdevano in una progressiva oscurità» senza conoscere né il compito, né lo scopo, né per conto di chi; “tutto sulla punta della lingua”, lo fece ridere molto quest’ultima frase, quando l’ebbe capita bene. Bisogna studiarle a lungo le parole per comprenderle a fondo, anche il resto, si diceva: «Un po’ come mangiare, prima si assaggia, subito magari non ti piace, poi col tempo sai distinguere e apprezzare i sapori, anche quelli nuovi. Stai calmo, manda giù, tanto per quello che non serve c’è sempre un buco per buttarlo fuori». Tutti i giorni il libro gli insegnava qualcosa, la sola presenza lo rassicurava, imparava di continuo in mezzo a quella semi oscurità abbandonata. Anche la vecchia arrivò dopo di lui, se la ritrovò seduta sulla sedia una notte in cui si svegliò di soprassalto, gli accadeva spesso di svegliarsi all’improvviso con la sensazione di non respirare più e dentro la testa una specie di mulinello di pensieri senza né capo né coda.
A vederla rischiò di soffocare davvero, poi fu contento, durò comunque poco l’euforia. Lei era priva di espressione, di parola, di gesti, non era una compagnia, non una presenza, neanche uno oggetto che all’occorrenza torna utile, aveva provato a darle da mangiare, da bere, niente di niente. «Chi o cosa la teneva in vita, perché era lì?», un interrogativo continuo il suo: «Parla, parla, cosa ci faccio qui e chi sono, dimmi almeno come mi chiamo» le urlava sbattendola contro lo schienale. La scena si ripeteva spesso, cambiavano le domande, ma lui dopo un po’ si alterava e andava in superficie per non ucciderla. Ucciderla, sarebbe stato possibile? Non se lo chiedeva neanche. Preferiva guardare gli anelli all’orizzonte. Il lavoro e la vista dell’orizzonte, erano i suoi unici momenti buoni, a parte il libro, ma quello era un segreto da non condividere con altre emozioni.
***
Ogni settimana due copianti atterravano per ritirare il metilcubo estratto dai rottami. L’Animale, così si rivolgevano allo smemorato, era uno specialista nell’estrarre il minerale dalle carcasse di navi che le cargo depositavano su Prau-èroh.
Gli scafi venivano trasportati sui ghiacci del Mare di Oleg per il recupero dei metalli. Una volta terminato lo smantellamento completo delle astronavi “disarmate” e stoccati i motori, gli scheletri finivano sotto le mani dell’Immoto-bàhat, che ricorda poco di molto, ma conserva il segreto del metallo più raro e il procedimento per la sua estrazione. Solo la sua razza poteva manipolare e separare gli elementi senza riportare danni ai tessuti e resistere al freddo di Prau-èroh.
Ma tutto questo all’Immoto-bàhat era sconosciuto. La Ventri-mahàr, come ogni settimana, atterrò nell’ora della luce di mezzo col solito carico e i rifornimenti. Finite le manovre lui uscì allo scoperto, non era più tempo di stare intanato, oramai gli importava poco di cosa o come i due avrebbero reagito, leggendo il libro si rendeva sempre di più conto che niente aveva un senso, o meglio, sentiva l’urgenza di dare un significato a quella sua esistenza, di placare la rabbia che a volte lo afferrava, invisibile e rovente, fino a infuocargli la testa, la stessa furia che lo coglieva di notte fantasticando su Ursula e lo costringeva a vagare fremente e irrequieto negli oscuri canali sotterranei. Si sarebbe gettato nelle vasche dilaniando a morsi i mamba-toràh tanta era la sua furia.
Quel giorno Necton-damàh e il suo gemello chiusi ermeticamente nelle capsule lo guardarono avvicinarsi in direzione della navetta.
«Vi stavo aspettando» gridò continuando ad avanzare con passo fermo, «ben arrivati, ho bisogno di parlavi».
«Ti stavamo aspettando» risposero con un’unica voce, «ben arrivato Animale!».
«Ecco, appunto, cominciamo subito. Io – non – mi – chiamo – A – ni – ma – le. Non so il mio nome e vorrei tanto saperlo, ma so che non è Animale»: faceva fatica a parlare per il troppo freddo, ma non si arrese, «ora mi dite chi sono, chi ero, perché sono qui, o potete pure smettere di portare ferraglia, tanto cosa potete farmi. Qui sono già un morto».
I due si guardarono a lungo prima di rientrare sulla navetta e fecero ritorno poco dopo lasciando sul terreno una sfera.
«Non attacca, ammenoché non abbiate deciso di far esplodere questo posto di merda e allora va bene, ma se si tratta di qualche giochino per farmi stare buono avete proprio sbagliato, non c’è più tempo per questo, non ne ho!»: le parole dell’Immoto-bàhat erano calme e definitive. «E riprendetevi la vecchia, polverizzatela come i resti delle navi, mangiatela o quello che vi pare, ma deve sparire dalla mia vista. E voglio Ursu…» una fiamma gli divampò nel petto e nella testa come un mulinello, si bloccò, si coprì la faccia con le mani, poi d’improvviso riprese la calma, una quiete lontana, nuova, divenne padrona dei suoi pensieri, accanto a lui la vecchia seduta, «una donn… a», non riuscì a dire altro si ammutolì davanti alla sedia, fissava la vecchia senza alcuna espressione, intontito.
«En ymmàrh, mìta se on noun. Tietoha Gamla-vanhà?» – cioè «Io non capisco le sue parole. Chi è la vecchia?» – chiese Necton-damàh al gemello.
«Mìka Gamla-vanhà?» – «Quale vecchia?» – fu la sola risposta.
«Vuoi Ursu, una donn… a. Cercheremo nel Cènge-còhi l’Animale doppio. Tu – non – ti – chiami – A – ni – ma – le.» dissero ancora i copianti con un’unica voce; «non sai il tuo nome e vorresti tanto saperlo. Noi non abbiamo risposte Immoto-bàhat. Conservato nell’octàl-sahà ti lasciamo la macchina custodita dai tempi per dare significato alle tue domande». Il gemello azionò l’apertura della sfera: «Questo è il Casco di Dio, l’unica vostra fonte di conoscenza.»
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di Santa Spanò
di Santa Spanò
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