A Las Vegas ci si va per il gioco, per le donne a portata di
tasca o per i matrimoni veloci, ma quell’uomo aveva altre idee in testa, glielo
si leggeva in quella faccia scura, raschiata dal vento e dalla salsedine. “In una città incandescente come questa,
qualcuno lassù nello spazio si accorgerà di noi” la frase si agitava nella sua mente.
Percorse la Strip sfrecciando tra i bagliori, una pista
rovente di insegne sfavillanti e in mezzo l’esodo perpetuo di un popolo senza
sonno. Si fermò al parcheggio, questa tappa fuori itinerario doveva essere
riorganizzata. Lo aveva portato l’impulso a Las Vegas, ma di lì a poco la sua
irruenza avrebbe dovuto sostenerlo per l’ennesima volta.
Non fece in tempo a chiudere la moto che il ragazzo
abbracciato a lui iniziò a correre, zigzagando come un moscerino impazzito,
verso una calca scomposta di ragazzi.
«Andreeeaaaa», gridò
e rapido cercò di raggiungerlo.
Due uomini lo bloccarono.
«Mio figlio si è
infilato là in mezzo. Non sta bene, dobbiamo trovarlo.»
Si fecero largo nella ressa e poco più avanti rovesciato
sulla schiena, immobile, la bocca spalancata c’era il ragazzo.
«È morto?», domandò un ragazzo in calzoncini corti pieno di
tatuaggi.
«He’s a fucker», disse quello piantato davanti ad Andrea.
L’uomo capì perfettamente. «No, è mio figlio. È solo malato»,
rispose in tono secco fissandolo negli occhi.
Gli pesò molto dire quella parola, ma la rabbia è
sbrigativa.
«Mi è venuto addosso. Ha iniziato a toccarmi. Fuck. L’ho
spinto», continuò il tipo, restando sempre immobile davanti ad Andrea riverso
sulla schiena.
La visiera del cappellino rigido gli copriva gli occhi, ma
si vedeva chiaramente la faccia paonazza. Ci fu una pausa, i due uomini
iniziavano ad innervosirsi.
«Voleva conoscerti. Lui è così», continuò Franco guardando
suo figlio a terra. «ha solo bisogno di abbracciare gli altri.» Se avessero
smesso tutti di agitarsi, avrebbero sentito distintamente in quel preciso
istante il rumore della fitta al cuore di Franco.
«Andate pure.
Tranquilli, ci penso io. Tu e tuo figlio venite con me». A parlare, con un tono da capetto, un tipo in
mimetica, pieno di pircing, sulla maglietta gialla a chiare lettere la scritta “Io
vivo nel non-spazio”. La sua voce ripristinò l’ordine del caos, rapidi si
rimescolarono tutti dentro la folla.
«Cos’ha tuo figlio?»,
chiese il ragazzo del non-spazio.
«E’ autistico.»
«Ah,ah,ah qua siamo tutti disturbati. Sai dove siamo?» Gli
chiese.
«No!»
«E’ il raduno…Come ti chiami? »
«Franco »
«Io N3itH3r. Qui siamo tutti hacker Franco, geni. » E rise
ancora.
Andrea sembrava non ascoltare, ma lasciò le carezze del
padre e si avvicinò a Enthriaitiieichthriaa, con un sorriso ingenuo allungò la
mano verso la sua pancia e scandì: «Andrea bello. Tu bello»
Un bel quadretto a guardarli, inverosimile in un altro
luogo, ma in quel non-spazio, tra non-nome, non-età, non-gender, non-etnia,
procedevano perfetti, tre amici nella vasca domenicale, nel via vai di creste,
cappellini, tribal, t-shirt, gambe pelose, bocche attaccate alle bottiglie,
occhi incollati agli smartphone, dita schizzate sui tasti, nomophobic, spie,
guardiani, curiosi, declamatori del binario, introversi, poco loquaci,
solitari, visionari, combattenti ai margini.
Arrivarono in un stand appartato, una ragazza rasata
trafficava con un fascio di cavi.
«Ehi, sei arrivato finalmente», esclamò la ragazza
«Ho portato degli amici. Lui è Andrea, è autistico. » Le
labbra si muovevano, ma i suoi pensieri erano molto al di là delle parole. «Deve assolutamente conoscere la nostra broodyhen», continuava ad articolare la
bocca come se non facesse parte di quel corpo «Lei si chiama 6YoU», disse
ancora, ma le sue dita erano già da un pezzo schizzate sopra una tastiera, si spostavano
sui tasti rapide e flessuose, un polipo
nell’acqua si sarebbe tranciato di netto i tentacoli davanti a tanta leggerezza.
Franco smise di guardare quelle mani senza gravità e lanciò
un’occhiata alla ragazza. «Andre, bella siksyou?», domandò al figlio.
Andrea guardò la ragazza «Bella.»
Lo disse senza convinzione c’erano troppi oggetti da
rimettere a posto, troppi colori confusi, altezze asimmetriche, forme confuse.
Fecero fatica a distrarlo, con l’aiuto del padre, gli fecero indossare il
casco, un visore e dei guanti. Non fu una cosa facile, ma nulla con quel
ragazzo era stato facile da molto tempo. Lui era come la vita, imprevedibile e il suo esatto contrario.
Spiegarono a Franco velocemente, anche troppo, le macchine e
il programma che stavano sviluppando. Una porta virtuale che Andrea di lì a
poco avrebbe attraversato. Continuavano a tranquillizzarlo, “sarà una specie d’incubatrice
la nostra broodyhen” gli ripetevano.
«Gli basterà muovere una mano per ottenere lo stesso
risultato nel mondo virtuale» disse l’hacker.
Franco, da veneto autentico, ma di quelli on the road, anche
se in quel momento non somigliava al Sal di Kerouac ...vedevo
un nuovo orizzonte, e ci credevo..., guardava la cosa stranito.
«A che serve sto ambaradan? Non è che diventa Johnny
Mnemonic? »
Lui, impulsivo, si arrestò. Aveva Paura.
Stava assistendo al collaudo di un programma perfetto, non
c’era bisogno di smart drugs per dilatare la coscienza. L’incubatrice avrebbe
ospitato Andrea, ma avrebbe portato a termine la sua crescita? Broodyhen
avrebbe avuto un’ala tanto grande da proteggere quel pulcino prigioniero nel
corpo di un adolescente?
Forse Andrea avrebbe
potuto tagliare e fare a pezzi tutte le schegge di una vita isolata e
finalmente costruire una perfetta sovranità, il suo autoritratto di
ragazzo libero.
Ma accadeva tutto velocemente, Franco doveva, no, voleva
fidarsi. Quante domande da fare, ma non ebbe il tempo di ordinare, chiedere, fermare tutto, rallentare, Andrea apparve
sullo schermo, barcollava, incerto sulle gambe. Poi in quello specchio tutto
divenne fluido.
«E’ fantastico! »
Gli occhi di Franco brillarono, una supernova nei suoi occhi.
Quella era la voce di Andrea, non c’erano dubbi: era Andrea! Lo guardava
correre.
«Sono nel mondo» gridò il ragazzo.
In quel momento il
padre non riuscì a lasciare spazio alla commozione o alla frenesia e si sentì, per
un tempo infinitamente piccolo, abbandonato. Quel figlio era legato a lui. Gli
apparteneva. Era il suo custode. Pensieri infilati uno dentro l’altro,
indistinti. Franco avrebbe concluso
presto quei pensieri sconnessi e confusi. Più tardi il programma si sarebbe
bloccato.
«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare». Le stesse parole di Kerouac. Di nuovo “sulla strada”.
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di Santa Spanò - brano liberamente ispirato a “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas edizioni Marcos y Marcos
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