Chiamatemi pazzo

Ho sempre amato i gesti lenti, misurati. La vita è come il kabuki. Ognuno, recita una scena. Ogni scena è scritta da una mano diversa e l’insieme non deve sempre avere un senso, come non sempre sono necessarie le parole per raccontare una storia.
Mi sono svegliato all’improvviso. Dopo poche ore di sonno ho i muscoli elastici, riposati, potrei fare tutto. Tutto mi è possibile, ma non faccio nulla, resto seduto, inerme, con l’immagine di quella dannata giornata davanti agli occhi. Osservo le ombre della stanza, ogni giorno le stesse, all’infinito. La luce velata del medesimo mattino si riflette sul mio sudore, ed io risplendo.
Quella giornata fu differente, non feci proprio caso al sudore, malgrado il caldo  fosse catramoso.  Percorsi come al solito via Piranesi.  Le strade mi apparivano come gli enormi corridoi del Monumentale dopo la chiusura. Svuotate dei vivi. Attraversai distrattamente viale Corsica,  alle 11 ero davanti al Sushi Bar, ancora chiuso. Col caldo il lavoro si era ridotto e anche la paga, ma resistevo, perché la vita è fatta di annotazioni su cose udite all'ombra delle foglie. Il libro che tenevo vicino al letto, l’ Hagakure, era la mia regola, il Giappone mi seduceva, l’impalpabile eleganza delle donne, i tratti segaligni dei Rōnin, comportatevi con decenza, senza eccessi né esuberanza ripetevo spesso. Così mi sforzavo di reprimere il disgusto che provavo per il pesce e nonostante il lezzo stomachevole lavoravo da Matsuo.   
Alle dodici entrò un vecchio si sedette a un tavolino, senza parlare.
«Il cuoco non è ancora arrivato» gli dissi avvicinandomi, ma sembrò non ascoltarmi affatto.
Emanava un odore penetrante, un misto di muffa e uova marce davvero rivoltante che mi fece allontanare rapidamente. Tuttavia continuavo a fissarlo, indossava un  soprabito logoro, imbrattato, una sorta di vestaglia che gli conferiva un aspetto miserabile e dignitoso allo stesso tempo. Con un gesto accurato tirò fuori un avanzo di matita e un pezzetto di carta stropicciata, scrisse sopra poche righe e sollevò il braccio con modestia. Era rimasto per tutto il tempo con gli occhi bassi piantati al tavolo, eppure sapeva che lo stavo osservando.
«Ragazzo mio, sii gentile» disse guardandomi « consegna per le nove quattro uramaki a questo indirizzo.»
Mi allungò il foglietto come se non si aspettasse nessuna risposta.
«Certo ojiisan, sarò lì alle nove» risposi compiaciuto. «Che effettone il mio ojiisan! Nonno in giapponese. Chissà se la pronuncia è stata all’altezza?» non feci in tempo a concludere il pensiero che il nonno mi salutò. «Arigatou gozaimasu, omagosan»
A queste parole mi voltai, ma il vecchio era sparito. «Grazie mille nipote?! Anche simpatico il nonno, mi ha preso in giro» mi dissi mentre guardavo l’ora e del cuoco neanche l’ombra.

Matsuo non rispondeva al telefono. Alle sette decisi di preparare io i quattro uramaki, l’avrò visto fare decine e decine di volte. Confezionai il tutto con le salse e chiusi  il locale.
«Al 9 alle nove!» dissi scherzando e mi resi conto che era strano per un giapponese usare il quattro e il nove, morte e dolore. «Non sarà di certo superstizioso» pensai.  Mi ero distratto, continuavo a vagare come un sonnambulo. Stavo per leggere il foglietto ancora una volta, quando una mano mi afferrò il braccio e sobbalzai.
«Torna indietro, dopo l’albero secco c’è la traversa. Il numero nove è in fondo alla strada»
Ancora quell’odore nauseabondo di muffa e uova marce. A parlarmi un uomo dal volto rinsecchito e pallidissimo che contrastava con dei grandi occhi, azzurri e umidi, ma non feci in tempo a vedere altro, non so se passarono trenta secondi o trenta minuti, l’uomo svanì, come evaporato. Ero pienamente sveglio eppure ero stato scosso nel sonno. Ripresi lentamente a respirare.
«Eccomi nasco ora, svuotato e senza memoria» dissi con un filo di voce per accertarmi di non essere addormentato. Passato il leggero tremore alle gambe ritornai sui miei passi e davanti a me l’albero secco.
«No! Non è possibile. Non…no, no.» balbettavo come un idiota, ero sicurissimo non c’era nessun albero secco in quel punto, non c’era mai stato un albero secco.
Mi sentivo come un ratto stanato e proprio come un ratto a testa bassa e veloce percorsi rapido la strada e in fondo la casa, la nona casa, salii di corsa i quattro gradini, bussai, la porta si mosse, era aperta.
Chiamatemi pazzo, se pazzia si può chiamare la paura, ma non potevo tornare indietro. Entrai, la stanza era vuota, enorme. La luce della strada penetrava dalle finestre producendo all’interno un livido chiarore, malinconico e sinistro. Feci alcuni passi in avanti, lentemente, in direzione di un’altra porta. Chiamai, ma niente. Mi ritrovai in un’altra stanza, anch’essa vuota, oramai puzzavo di terrore, decisi che dovevo andarmene. Tornai indietro ma la porta d’ingresso era sparita lasciando posto a un’apertura debolmente illuminata. Ero sgomento, sentivo il sangue pulsarmi nelle arterie. Come un forsennato continuavo l’involuto percorso che mi conduceva, inesorabilmente, all’ennesima stanza di quell’appartamento vuoto e spettrale. Mi accasciai a terra fradicio.
«Com’è successo? Povero ragazzo» la voce triste di una donna in lontananza. «Il furgone del pesce, se l’è trovato davanti» le rispose un uomo.
Erano voci distinte, le sentivo chiaramente dietro le pareti.
Urlai.
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di Santa Spanò



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